Il Dott. L

Ho sempre guardato con una certa diffidenza la psicoterapia e, devo essere onesta, ho sempre considerato debole chi ne è ricorso. Mi sono sempre chiesta: “come fa un estraneo a conoscerti meglio di quanto tu possa conoscere te stesso?” e , dato che la risposta che rimbombava nella testa era sempre “non può!”,  la considerazione successiva era: “quindi, se non sa come sei fatta, come può aiutarti?”. E’ esattamente con questi pensieri che continuavano a rincorrersi che ho suonato il citofono dello studio del Dott. L. un pomeriggio di molti mesi fa. Ricordo che, quel pomeriggio, davanti al portone, avevo la tachicardia. Stavo vivendo quell’appuntamento come una sconfitta. Mi vergognavo di dover ricorrere alla psicoterapia per affrontare la mia vita anche perché, allora, ero anche convinta di avere una vita, non dico perfetta, ma abbastanza decente da non dover giustificare nessun tipo di disagio nel doverla affrontare.
Lo studio del Dott. L è in un vecchio palazzo con quelle scale di pietra strette che, già di per loro, mettono ansia.
Lui si presenta con fare molto formale e atteggiamento distaccato.
Istintivamente non mi piace.
Avrà, penso, la mia età.. forse un paio di anni in più ma dal tono e dall’atteggiamento cerca di dimostrarne di più. Si siede dietro alla scrivania di legno lucido, mi chiede il permesso di registrare la seduta tramite webcam (un registratore non sarebbe bastato? Se lo sapevo mi sistemavo in modo da sembrare più carina!) e apre un block-notes.
In quel momento ho pensato che mancasse solo la classica chaise longue di pelle per sembrare catapultata  in un film in cui la protagonista, affranta, si affida alle cure di un esperto psicologo che, alla fine, fa sempre la differenza! (mi è venuto in mente Bisio nel film “confusi e felici”). Dal Dott. L , comunque,  la chaise longue, ce l’avrei vista proprio bene ma, ahimè, mi sono invece accontentata di una normalissima sedia di legno (lucidissima come il tavolo).
Intorno l’ambiente era sterile e, già abbastanza a disagio, ho passato un paio di minuti in religioso silenzio cercando di capire cosa si dovesse dire in una seduta di psicoterapia: dovevo parlare del mio passato? Non c’erano episodi notevolmente struggenti da raccontare. Voleva che gli spiegasse degli attacchi di panico e dell’ansia? Dovevo aspettare un suo segnale? Lui, a dirla tutta, non mi stava aiutando molto. Aveva adottato un atteggiamento rilassato (ma anche un po’ costruito secondo me) appoggiandosi allo schienale della sua poltrona in pelle-umana ed era in attesa. La mia non-voglia di psicologo si era trasformata in voglia-di-uscire-dopo-aver-ammesso-che-era-stata-un’idea-pessima ma, mi sono sforzata di restare e ho iniziato a parlare. Parlavo a caso. Ho pensato che iniziare a spiegare perché fossi li era un buon modo per “rompere il ghiaccio”.  Lui ogni tanto scriveva parole sotto una linea spazio-temporale che aveva disegnato sul suo block-notes. Mi sarebbe piaciuto chiedergli se stavo andando bene, se ero sulla strada giusta per fare una bella seduta di psicoterapia ma, più volte, guardandolo, ho lasciato stare. Aveva un’espressione a metà tra la concentrazione e la noia. Qualche volta, nella mia esposizione confusa degli eventi, mi fermavo in attesa di un suo riscontro ma  l’unica frase che ottenevo in cambio dei silenzi era “Continui!”. I Suoi “Continui” iniziavano davvero ad irritarmi ed ero sempre più convinta che la psicoterapia non facesse per me. Perché raccontare le mie paure a qualcuno che, come unica affermazione, ti dice di continuare il racconto? Io volevo un consiglio o quantomeno un’opinione! Mi aspettavo un “brava, ha fatto bene!” oppure un “ma no, è li che ha sbagliato, ovvio che ha l’ansia!” e invece….”Continui”!
Alla fine della prima seduta, esasperata da questo suo atteggiamento,  gli ho anche chiesto perché non era mai intervento e Lui, con fare molto pragmatico (roba che, se fosse stato bello, avrebbe veramente fatto la parte del BelloEDannato), mi ha risposto che “il suo compito non è parlare ma ascoltare!”.
Uscita da li ero decisa a non tornare più.
Era una perdita di tempo.
Quello che mi ha fatto cambiare idea fu il tono di mia madre una volta rientrata in casa.
Mi chiese com'era andata e lo fece con un tono così carico di aspettative che non me la sono sentita di dirle la verità! Era chiaramente preoccupata per me: non voleva più vedermi stare male e, probabilmente, sperava avessi trovato la strada giusta per sconfiggere i miei demoni.
Non volevo deluderla e, anche io, volevo “guarire” quindi decisi di dare al Dott. L un’altra possibilità.

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